Lasciateci in pace! Siamo bambini!

Perché i bambini della Repubblica Democratica del Congo non diventino bambini soldato!
Perché i bambini soldato della Repubblica Democratica del Congo ritornino bambini!
La campagna ha l’obiettivo di sensibilizzare la Diocesi di Roma sul problema dei bambini soldato e sulle cause che lo generano, e di raccogliere fondi per sostenere i progetti promossi dalla Caritas Diocesana di Goma nella R.D. Congo in favore della smobilitazione e del reinserimento sociale dei bambini ex-soldato.


La Caritas di Goma
La Caritas di Goma è organizzata in 4 settori: Dipartimento dello Sviluppo, Dipartimento Emergenze, Dipartimento della Sanità, Commissione Giustizia e Pace. La smobilitazione dei bambini soldato era dapprima affidata al dipartimento delle emergenze ma è oggi affidata alla Commissione Giustizia e Pace.

La Commissione Giustizia e Pace si occupa di rispondere alla grave situazione di ingiustizia sociale e carenza di assistenza legale nella diocesi di Goma. Segue inoltre, in collaborazione con le agenzie delle Nazioni Unite ed alcune altre ONG, il progetto relativo alla smobilitazione ed al reinserimento sociale dei bambini soldato presenti ancora in gran numero nel territorio della diocesi.

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Disarmo e Reinserimento
Il processo di disarmo dei giovani combattenti è difficoltoso e l’attuale situazione sociale e culturale del paese comporta una serie di complesse problematiche. Tuttavia, per porre fine all’arruolamento dei bambini soldato sono stati avviati i programmi di “Disarmo, Smobilitazione (Démobilisation) e Reinserimento” (DDR) che mirano a recuperare i bambini e le bambine soldato, ad offrire un’alternativa possibile alla partecipazione ai conflitti armati e ad aiutarli a riprendere la loro vita all’interno della comunità. Si tratta di un processo di lunga durata che prevede varie fasi:

  • Disarmo: è l’attività di recupero delle armi. Avviene di norma tramite agenti ONU, dove presenti, o attraverso le organizzazioni attive sul territorio che si occupano di DDR.
  • Smobilitazione: è il formale e controllato distacco dei combattenti dalle forze armate. L’azione di Caritas Goma avviene nei Centri di Transito e Orientamento (CTO) preposti al recupero dei bambini soldato.
  • Reintegrazione: è la prima fase di assistenza offerta agli ex combattenti. Nel caso dei minori va dalla ricerca delle famiglie di origine fino al ricongiungimento familiare. Prevede quando possibile il reinserimento scolastico o lo studio di un percorso alternativo di recupero.

A queste tre fasi si aggiungono altre attività che con il tempo sono state individuate come fondamentali dalle varie agenzie di protezione dell’infanzia e che Caritas Goma ha implementato sul territorio

  • Prevenzione: attività di sensibilizzazione e informazione sui diritti dei bambini, in particolare sui bambini arruolati nelle forze armate, indirizzate a forze armate, autorità locali e società civile.
  • Reinserimento socio-economico: al momento sono allo studio dei progetti di recupero sociale dei ragazzi attraverso la formazione e l’avviamento professionale nel settore del lavoro agricolo e pastorale.

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I Centri di Transito ed Orientamento
I bambini che arrivano ai CTO hanno in media tra gli 11 ed i 18 anni. Alcuni si presentano volontariamente dopo essere scappati dai gruppi militari, altri vengono consegnati dagli ufficiali delle forze armate.

In ogni CTO lavorano 4 educatori (encadreurs), che vivono e lavorano nel centro 24 ore su 24, 3 cuoche e 2 guardiani.

La durata della permanenza nei CTO è di 3 mesi, durante i quali il lavoro prevede le seguenti fasi:

  1. Accoglienza
  2. Attività educative
  3. Attività ricreative
  4. Ricongiungimento familiare

All’arrivo, i bambini vengono disarmati e vengono consegnati loro: abiti civili, una coperta, un asciugamano, delle ciabatte ed una saponetta. Dopo l’accoglienza, si procede alla compilazione di una scheda di identificazione del bambino da parte degli operatori. Attraverso la compilazione delle schede e l’accompagnamento quotidiano, gli encadreurs tentano di raccogliere le informazioni necessarie per stabilire l’identità dei bambini, per riuscire a rintracciare la loro famiglia, valutarne i bisogni e le priorità, lavorando sul recupero della stima in se stessi e della fiducia negli altri. Tutte le attività mirano al recupero dell’infanzia, in un percorso che utilizza diversi strumenti.

Le attività educative comprendono corsi di alfabetizzazione, educazione all’igiene, avvicinamento al lavoro agricolo e all’allevamento di piccoli animali a scopo terapeutico.
I bambini ricevono una formazione sul rapporto genitori/figli, sulle malattie sessualmente trasmissibili, sulle regole generali di buona condotta, sulla coabitazione pacifica. Sono previsti un percorso di sensibilizzazione sull’AIDS e l’assistenza sanitaria per i bambini malati. Le attività ricreative si articolano in giochi di ruolo, danza, canto, teatro, calcio.
Durante la permanenza nel CTO si realizza anche la prima fase del processo di reintegrazione, che comincia con la ricerca delle famiglie o di eventuali tutor, anche in altre province e paesi.

Il lavoro di preparazione al ricongiungimento coinvolge sia i bambini che le famiglie e le comunità integrate nei processi di sensibilizzazione, affinché siano in grado di ri-accogliere i bambini una volta usciti dai centri. Si tratta di un percorso lungo e a volte difficoltoso perché non sempre i familiari accettano di buon grado bambini che hanno partecipato ai combattimenti ed è spesso necessario preparare la famiglia al rientro del bambino per assicurarsi che non ci siano dispute familiari irrisolte, che potrebbero spingere nuovamente il ragazzo verso le forze armate.

Al termine dei tre mesi i bambini vengono quindi ricongiunti alle rispettive famiglie quando è possibile.

A ciascuno viene fornito un kit di uscita composto da un paio di pantaloni ed una maglietta o una camicia, una zappa, delle sementi e un coniglio. Per i bambini che riprendono gli studi i CTO forniscono l’uniforme, i quaderni e la cancelleria e si fanno carico delle tasse scolastiche per il primo anno. Una volta che i bambini sono stati riuniti alle famiglie gli encadreurs continuano a visitarli regolarmente per valutare il buon andamento del loro reinserimento, incontrando le famiglie, le scuole e il contesto di riferimento.

Tutti i bambini reinseriti nella propria comunità di origine ricevono un documento ufficiale di congedo dalle forze armate firmato dalla più alta autorità militare provinciale che garantisce l’impunità per i crimini commessi in tempo di guerra.

I CTO gestiti dalla Caritas di Goma sono quattro: Mweso e Masisi aperti nel 2004; Nyanzale e Kanyabayonga aperti nel 2007.

A causa della guerra, tutti i CTO sono stati chiusi tra ottobre e novembre 2008 e i bambini sono stati riunificati alle famiglie o trasferiti nel capoluogo Goma. Tra gennaio e febbraio 2009 tutti i Centri sono stati riaperti, ed hanno nuovamente cominciato ad accogliere i bambini rilasciati dalle milizie. In seguito agli accordi firmati tra il governo e gruppi ribelli di CNDP, MaiMai e PARECO, è iniziata un’opera di integrazione dei combattenti nell’esercito regolare che ha portato alla rapida smobilitazione di un gran numero di bambini. Per far fronte all’emergenza, Caritas e altre Organizzazioni hanno lavorato alla messa a punto di un piano di contingenza per organizzare al meglio la risposta alle nuove esigenze. Attualmente i CTO proseguono nel loro impegno per la smobilitazione dei minori, pronti a gestire la nuova recrudescenza della crisi nel Nord Kivu.

Fino a settembre 2010 sono stati accolti nei CTO oltre 3.500 bambini e bambine ex soldato.

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La Campagna promossa dal Settore Educazione alla Pace ed alla Mondialità della Caritas Diocesana di Roma
La collaborazione tra la Caritas diocesana di Roma e la Caritas diocesana di Goma nasce nel 2002 con il sostegno nell’emergenza causata dall’eruzione del vulcano Nyiragongo.

Si è rafforzata con ulteriori iniziative e dal 2006 la presenza a Goma di giovani in Servizio Civile, attraverso il progetto “Orizzonti e Confini: Percorsi di Solidarietà Internazionale”, ha garantito un collegamento diretto e quotidiano tra le due realtà.

A partire dal 2007, il SEPM ha avviato una campagna specifica sulla questione dei bambini soldato, promuovendo una serie di attività e realizzando strumenti di informazione, tra i quali:

  • il Convegno dell’ 8 novembre 2008 con la presenza del Responsabile dei CTO della Caritas di Goma;
  • l’Agenda per la Pace 2008;
  • la Festa per la Pace, edizioni del 2008 e del 2009;
  • incontri di sensibilizzazione presso scuole e parrocchie;
  • gemellaggi tra alcune classi di Roma e di Goma;
  • strumenti e sussidi didattici per l’approfondimento e l’animazione;
  • la mostra fotografica;
  • la brochure informativa;
  • il Libro della Campagna “Lasciateci in pace! Siamo Bambini! – Storie e immagini dal Congo e dall’Italia”;
  • l’iniziativa “Natale solidale in libreria”, dal 2007 ad oggi

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La Repubblica Democratica del Congo
La Repubblica Democratica del Congo, situata nell’Africa centrale a cavallo dell’equatore, è il terzo stato africano per estensione (2.345.000 kmq) ed uno dei paesi più ricchi di risorse minerarie (rame, zinco, stagno, oro, cobalto, uranio, coltan, petrolio) di tutto il continente, soprattutto nelle province orientali del Kivu, del Katanga e dell’Ituri.

Ha una popolazione di circa 68 milioni di abitanti, di cui 8 milioni vivono nella capitale, Kinshasa, e nei suoi dintorni.

Date le sue notevoli dimensioni, a livello amministrativo, il paese è suddiviso in un Distretto, quello della capitale Kinshasa, e 25 Province.

La lingua ufficiale è il francese; si parla correntemente il lingala (lingua veicolare a Kinshasa e nel nord-ovest), lo swahili (veicolare nell’est), lo tshiluba (Kasai Occidentale e Orientale), il kikongo (Basso-Congo, ovest) e più di 200 dialetti.

La colonizzazione
Il Regno del Congo sopravvisse diversi secoli al contatto con gli europei, passando a tempi alterni dalla sfera di influenza del Portogallo a quella dell’Olanda e viceversa. La fine del Regno fu formalizzata dalla Conferenza di Berlino del 1884-1885, quando la regione venne assegnata al re del Belgio Leopoldo II.

Il paese diventò così “Stato Libero del Congo”, proprietà personale del sovrano belga. L’intensa azione di sfruttamento commerciale del paese fu perpetuata attraverso l’uso sistematico e disumano degli schiavi. La struttura governativa dello Stato Libero appariva decisamente inadeguata alle dimensioni del paese, sicché nel 1908 il Parlamento Belga proclamò il territorio propria colonia e Leopoldo II dovette rinunciare ad un impraticabile possesso privato.

L’indipendenza
Nel dopoguerra, sotto l’ondata di decolonizzazione, il re belga Baldovino permise la formazione di partiti politici nella colonia. Questo portò alla nascita di una serie di gruppi secessionisti tra i quali si distinse il Movimento Nazionale Congolese (MNC), guidato da Patrice Lumumba.

Nel 1960 Il Congo ottenne l’indipendenza e venne formato un governo con Joseph Kasavubu Presidente e Patrice Lumumba Primo Ministro.

Come primo atto di governo, Lumumba decise di riportare sotto la piena sovranità del popolo congolese le immense ricchezze fino ad allora in mano ai colonizzatori, allarmando così le grandi compagnie minerarie internazionali ed il Belgio, che sperava di mantenerne il controllo.

Allo stesso tempo, appoggiato dai belgi, il leader Tshombe proclamava la secessione della ricchissima regione sud orientale del Katanga. Questa situazione spinse Lumumba a chiedere l’invio di forze di pace da parte dell’ONU e ad annunciare la rottura delle relazioni diplomatiche con l’ex madrepatria. Lumumba rimase però al potere solamente due mesi: venne destituito dallo stesso presidente Kasavubu ed assassinato il 17 gennaio 1961.

“Il re” del Congo
Dopo alcuni anni di instabilità, nel 1965, Sese Seko Mobutu prese il potere con un colpo di Stato ed instaurò una feroce dittatura. Nel contesto della guerra fredda il paese si trasformò in una pedina fondamentale dello scacchiere politico internazionale. Ciò alimentò il regime neopatrimoniale di Mobutu per più di trent’anni, nonostante i problemi di legittimità e di relazione tra il potere centrale e le province. La guerriglia interna, infatti, non si fermò. Due tentativi di ribellione nella regione del Katanga (1977/78) vennero sedati con l’intervento di truppe francesi, marocchine, egiziane e statunitensi, nonché di numerosi mercenari provenienti da tutta l’Europa.

Alla già precaria situazione politica si aggiunse un’economia sempre più in crisi e questo portò all’intervento dei governi occidentali che tramite il Fondo Monetario Internazionale (IMF) imposero una serie di riforme, tra le quali la cessione delle concessioni minerarie e petrolifere.

I 15 anni di transizione
Nei primi mesi del 1990 spinto da diversi eventi come la dissoluzione del blocco comunista a livello internazionale e la crescente opposizione a livello interno, Mobutu promise al paese l’introduzione del pluripartitismo e accettò di convocare una Conferenza Nazionale Sovrana (1991) con l’obiettivo di riscrivere la Costituzione. Da quel momento diverse associazioni e gruppi rivendicarono il riconoscimento dei propri diritti; il movimento di opposizione a Mobutu si organizzò nella Sacra Unione mentre gli studenti iniziarono a mobilitarsi e a chiedere le dimissioni del Presidente. Le manifestazioni, però, furono represse nel sangue provocando prima le critiche della comunità internazionale e poi l’isolamento del Paese. Di fronte a questa nuova situazione il Presidente permise alla Conferenza Nazionale di iniziare i lavori e contemporaneamente nominò E. Tshisekedi, capo della Sacra Unione, Primo Ministro.

Alla situazione già critica si sommò l’inizio di nuovi conflitti nella parte orientale del Paese. La violenza su larga scala era esplosa già prima del genocidio rwandese del 1994, e fu fortemente alimentata dall’arrivo di quasi un milione di rifugiati dal Rwanda. Circa 14.000 persone furono uccise e 200.000 sgomberate dal Nord Kivu a causa degli scontri tra le milizie. Il 30 Agosto 2010 l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite, fortemente contrastato dal Rwanda e dai suoi sostenitori, ha esplicitamente definito le violenze avvenute in RDC tra il 1994 e il 2003, crimini di “contro genocidio” dei miliziani Tutsi del RPF (il Fronte Patriottico Rwandese di Paul Kagame) e i ribelli congolesi verso i rifugiati Hutu rwandesi e gli Hutu congolesi (che da sempre vivono in quella regione). Vittime principali: donne, bambini e anziani che in nessun modo potevano essere considerati membri delle milizie Interahamwe che perpetrarono il genocidio in Rwanda. Le singole accuse di genocidio dovranno essere provate in aula, in tribunali ancora da allestire, ma dopo anni di indagini finalmente gli osservatori ONU hanno avuto il coraggio di dire apertamente ciò che in molti da tempo già sostenevano.

In questo quadro acquistavano sempre più forza i movimenti ribelli, i quali confluirono nell’Alleanza delle Forze Democratiche per la Liberazione del Congo (ADFL), capeggiata da Laurent-Désiré Kabila.

La campagna militare fu facilitata dalla debolezza dell’armata zairese ma soprattutto dal supporto ricevuto da alcuni Stati confinanti tra cui l’Uganda, il Rwanda e il Burundi. Nel 1997 l’AFDL, assieme alle truppe alleate ruandesi e ugandesi, conquistò le città di Bunia e Lubumbashi, ed il 17 maggio entrò a Kinshasa ponendo fine alla trentennale dittatura di Mobutu.

Kabila si proclamò Presidente cambiando il nome del Paese in Repubblica Democratica del Congo.

La guerra mondiale africana
La “luna di miele” tra Kabila e gli alleati durò poco. Il nuovo Presidente congolese decise di liberarsi della tutela dell’ugandese Museveni e del rwandese Kagame cacciando i seicento soldati di Kigali ancora presenti a Kinshasa. Delusi dal comportamento di Kabila, Kagame e Museveni decisero di sostenere un nuovo movimento di ribellione contro il governo congolese. Solo l’appoggio dell’Angola, della Namibia e dello Zimbabwe impedì la caduta del regime di Kabila.

È la cosiddetta Prima Guerra Mondiale Africana: otto stati in guerra (a quelli già citati si aggiungano Burundi e Sud Africa) per accaparrarsi il controllo delle immense ricchezze del paese.

Sotto la pressione della comunità internazionale, il 10 luglio 1999 i contendenti firmarono gli accordi di Lusaka. Destinati a porre termine alla guerra iniziata nel 1998, prevedevano la cessazione effettiva delle ostilità, il ritiro di tutte le forze straniere (Rwanda, Burundi, Uganda, Angola, Zimbabwe, Namibia) e l’intervento di una forza Onu per il mantenimento della pace. Il dispiegamento delle forze militari delle Nazioni Unite (missione MONUC) ha avuto inizio nel dicembre 2000 (5.537 caschi blu tra cui circa 500 osservatori). Il cessate il fuoco non fu rispettato. Nella primavera del 2001, dopo l’assassinio di Laurent Kabila e l’insediamento al potere del figlio Joseph, le forze straniere iniziarono la smobilitazione. Nel 2003 il ritiro era quasi totale ad eccezione della regione dell’Ituri, provincia di confine con l’Uganda, dove si scontravano ancora le diverse forze del Movimento di Liberazione del Congo (MLC) e quelle del RCD (Raggruppamento Congolese per la Democrazia), sotto lo sguardo delle truppe ugandesi, il cui ritiro fu annunciato solo all’inizio del maggio 2003. Parimenti, nella regione dell’Uvira si scontravano regolarmente le forze del RCD-Goma, sostenute da Kigali, e i gruppi popolari di auto protezione detti Mai-Mai, sostenuti da Kinshasa, che incarnavano l’opposizione all’occupazione rwandese.

La ferocia delle violenze e la preoccupazione circa un possibile peggioramento della situazione hanno spinto il Consiglio di Sicurezza a creare, alla fine del mese di maggio 2003, la missione Artemide, una nuova forza multinazionale sotto il comando della Francia, con l’appoggio logistico degli Stati Uniti e quello politico di Londra.

Le istituzioni della transizione democratica
Il Dialogo Intercongolese, creato con l’accordo di Lusaka, prevedeva l’inizio di trattative tra il governo, le forze ribelli, l’opposizione politica e la società civile. Dopo varie negoziazioni, nel dicembre 2002 a Pretoria fu proposto l’ “Accordo Globale Inclusivo”, ratificato a Sun City nell’aprile 2003. Questo prevedeva l’istituzione di un governo d’unità nazionale, con durata di due anni, con l’obiettivo di approvare una nuova Costituzione e di portare il Paese a libere elezioni democratiche. In base agli accordi tra le diverse parti, si costituirono una Presidenza con quattro Vice-Presidenti, un Parlamento con 500 deputati e 120 senatori e cinque commissioni di appoggio alla transizione democratica (Commissione Elettorale Indipendente, Authority, Commissione Verità e Riconciliazione, Osservatorio sui diritti umani e Commissione per la Lotta contro la Corruzione).

Il 30 luglio 2006 si sono tenute le prime elezioni democratiche, che non avrebbero potuto avere luogo senza l’appoggio della comunità internazionale, ed in particolare del Parlamento Europeo che, insieme all’ONU, l’OSCE e alcune ong, ha inviato nel Paese una delegazione di deputati come osservatori del processo elettorale.

Joseph Kabila, già presidente della Repubblica Democratica del Congo dal 2001, dopo l’uccisione del padre Laurent-Désiré, è stato riconfermato con il ballottaggio del 29 ottobre 2006. Nonostante queste elezioni fossero un tentativo di unificare il Paese e porre quindi fine alla violenza causata da lotte e divisioni etniche, il governo centrale di Kabila rimane tuttora debole nei confronti della situazione nella parte orientale dello Stato. La più importante caratteristica della RDC infatti è, ancora oggi, la fragilità del suo tessuto politico, economico e sociale.

La regione a Est: il Kivu
Per ragioni geopolitiche e demografiche le regioni del Nord e del Sud Kivu pongono molte sfide alla stabilità dello Stato centrale. Si è costituito un legame socio economico molto forte con l’Africa dell’Est, rafforzato dalla mancanza di reti stradali e di comunicazioni con la capitale Kinshasa, lontana geograficamente e spesso anche politicamente.

La zona ospita una percentuale molto alta del totale della popolazione, circa il 7,1%, con una forte presenza della minoranza dei Banyarwanda (popolazione di origine rwandese situata nei territori di Masisi e Rutshuru), fonte di tensione con i gruppi etnici locali (Hunde, Nyanga, Tembo, Nande).

Nel 2002, al tempo degli Accordi di Pretoria, la Provincia era in una fase cruciale nella ricerca di stabilità. L’accordo infatti escludeva il movimento RCD e non riusciva ad assicurare una situazione di sicurezza con il Rwanda. Diversi gruppi armati hanno combattuto contro l’RCD. In primo luogo gli Interhamwe, le milizie responsabili del genocidio contro i Tutsi, che hanno ricevuto il supporto di Joseph Kabila. In secondo luogo i Mai-Mai, gruppi impegnati nella lotta contro i soldati di Rwanda e Uganda.

Fino al 2009 gli scontri nel Nord-Kivu hanno visto opporsi principalmente i ribelli del CNDP (Congresso Nazionale per la Difesa del Popolo), guidato dal Generale Laurent Nkunda, e le Forze Armate della Repubblica Democratica del Congo (FARDC).

Laurent Nkunda, comandante del CNDP, è un Tutsi congolese legato, anche se non ufficialmente, al governo di Kigali e impegnato con il suo esercito nella difesa degli interessi Tutsi nella regione contro FARDC, FDLR (Forze Democratiche per la Liberazione del Rwanda, hutu), PARECO (Partito di Resistenza Congolese) e MAI MAI (gruppi militari di autodifesa popolare).

Per far fronte alla presenza di ribelli stranieri sul proprio territorio, il governo ha partecipato a due conferenze su disarmo e pace nella regione dei Grandi Laghi. La prima si è tenuta tra RDC Rwanda e Kenya nell’ottobre del 2007: la RDC si è impegnata a preparare un piano dettagliato per il disarmo delle FDLR in collaborazione con la MONUC. Il piano include il lancio di operazioni militari per sradicare la presenza Interahamwe, la sensibilizzazione dei miliziani, il ricollocamento dei combattenti in centri di transito, il rimpatrio per coloro che scelgono di tornare in Rwanda, e l’allontanamento dalla frontiera per coloro che invece non intendono rimpatriare. Inoltre, i miliziani accusati di crimini di guerra e contro l’umanità devono essere trasferiti al Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda (TPIR). Il Rwanda, da parte sua, si è impegnato a trasmettere alla RDC e alla MONUC una lista dei ricercati per il genocidio, e ad astenersi dal sostenere i gruppi armati che si trovano in Congo, in particolare quello del generale Nkunda.

La seconda è la conferenza di pace che si è svolta a Goma, capoluogo della Provincia del Nord-Kivu, nel gennaio del 2008. L’accordo firmato prevedeva un cessate il fuoco e il disarmo di tutti i gruppi ribelli, ma a dispetto del calo del numero di scontri dalla fine di gennaio, i combattimenti pesanti sono ripresi nel mese di settembre soprattutto nelle zone di Rutshuru e Masisi. Nonostante le continue richieste di cessate il fuoco da parte delle Nazioni Unite, le truppe del generale Nkunda hanno continuato a prendere terreno sulle FARDC, provocando la fuga della popolazione, che si è riversata principalmente nei dintorni della città di Goma. La situazione è precipitata a fine ottobre 2008, quando il generale Nkunda ha conquistato Rutshuru e la popolazione ha attaccato la sede della forza Onu a Goma (27 ottobre), accusando la MONUC di non garantirle adeguata protezione.

L’attenzione internazionale si è quindi concentrata sull’emergenza umanitaria (si contavano un milione di sfollati in condizioni disperate nei campi profughi, tra epidemie e mancanza di acqua e cibo) e sulla crisi politica, dovuta alla difficoltà del governo di gestire e controllare i rapporti con le diverse forze in gioco, accentuata dal fatto che il generale Nkunda è arrivato a minacciare di far marciare i suoi uomini sulla capitale Kinshasa se il governo avesse continuato a rifiutarsi di negoziare con lui.

La nuova crisi ha portato all’intervento della diplomazia internazionale per la definizione di possibili accordi di pace.

I due governi di RD Congo e Rwanda insieme ai rappresentanti dei principali gruppi armati ribelli sono stati invitati a partecipare, a partire da novembre 2008, agli incontri bilaterali guidati da ONU e Unione Africana.

I risultati di questi incontri sono stati da una parte un accordo tra i Presidenti Kabila e Kagame per l’arresto di Nkunda e l’avvio di operazioni congiunte tra gli eserciti congolese (FARDC) e ruandese (RDF) per il disarmo degli FDLR, dall’altra la firma degli “Accordi di Ihusi”, il 23 marzo 2009 a Goma, che hanno dato avvio all’integrazione dei gruppi ribelli (CNDP, MAI MAI e PARECO) nelle forze armate regolari (FARDC e Polizia nazionale).

Il 22 gennanio 2009 Nkunda è stato arrestato ma Kigali si rifiuta di concederne l’estradizione rendendo impossibile processarlo in RDC. Il suo braccio destro, Bosco Ntaganda, ha subito firmato un accordo con le FARDC per l’integrazione. Il CNDP oggi è teoricamente confluito in un partito politico e le sue milizie sono state integrate nel nuovo esercito congolese (FARDC). Nonostante la fusione con l’esercito regolare, l’ex CNDP mantiene un controllo su vaste aree del Nord Kivu dando forma ad una vera e propria gestione parallela del territorio e destabilizzando l’esercito dall’interno.

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Il fenomeno dei bambini soldato
Si considera bambino soldato chiunque al di sotto dei 18 anni sia componente effettivo o sia assegnato a eserciti governativi o a qualsiasi altro esercito regolare o irregolare o gruppo politico armato, che vi sia o meno un conflitto in atto.

Sono bambini e adolescenti soldato sia quelli che imbracciano armi e combattono attivamente, sia quelli che sono utilizzati da eserciti e gruppi armati come esche, corrieri o guardie, per svolgere azioni logistiche o di supporto, come trasportare le munizioni e le vettovaglie, posizionare mine ed esplosivi, fare ricognizioni. Questa definizione ampliata di “bambino soldato” è stata formulata nel 1997, nell’ambito dei c.d. Principi di Città del Capo.

Anche le bambine e le ragazze sono sempre più spesso coinvolte nei conflitti armati. Sono arruolate ed impiegate frequentemente per scopi sessuali, oltre che per combattere, posizionare mine, trasportare materiali bellici e svolgere lavori domestici. Subiscono ripetutamente violenze ed abusi, ed il rischio di contrarre HIV/AIDS ed altre malattie sessualmente trasmissibili, così come di restare incinta, è elevatissimo.

Lo statuto della Corte Penale Internazionale definisce come crimine di guerra l’impiego di minori di 15 anni nei conflitti. Nel 2003, la Corte ha avviato le sue prime indagini nella Repubblica Democratica del Congo e in Uganda, dove bambini soldato sono impiegati in modo massiccio dai gruppi armati.

L’incriminazione può servire come deterrente per i gruppi armati nel futuro. Alcuni di questi stanno cercando legittimazione internazionale e supporto ai loro obiettivi politici. La pubblicità negativa sollevata dall’uso di bambini soldato potrebbe indebolire tale sostegno e portare all’impegno e all’azione concreta per porre fine a tale pratica.

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Quanti e dove sono i bambini soldato?
Non è possibile fornire il numero esatto dei bambini soldato nel mondo. Si stima siano 250.000. Tale dato, reso noto a febbraio 2007, in occasione della Conferenza di Parigi, è un aggiornamento del dato emerso 10 anni prima che ne contava 300.000. Si stima che circa 50.000 bambini soldato abbiano preso parte ai programmi di disarmo, smobilitazione e reinserimento (DDR), ma non possiamo essere sicuri che gli stessi bambini già smobilitati e congedati non siano in seguito ritornati a combattere.

Secondo l’ultimo rapporto annuale del Segretario Generale delle Nazioni Unite su questo tema, il numero di gruppi e di forze armate che impiegano bambini è salito tra il 2006 e il 2007 da 40 a 57.

Tale incremento nasconde una realtà complessa. Da un lato, è indice di un miglior monitoraggio e di una maggiore conoscenza delle violazioni, dall’altro di una maggiore abilità nell’identificare le parti responsabili del reclutamento.

Mentre migliaia di bambini sono fuoriusciti dalle forze armate negli ultimi cinque anni al termine delle guerre nei loro paesi, come Angola, Sierra Leone e Costa d’Avorio, altre migliaia sono stati attirati in nuovi conflitti, ad esempio in Sudan e Ciad. In paesi come Colombia, Repubblica Democratica del Congo, Uganda e Myanmar ci sono stati solo piccoli cambiamenti e migliaia di bambini continuano ad essere usati come soldati.

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Le cause
Negli ultimi anni abbiamo assistito ad un cambiamento nella natura delle guerre, che vedono spesso non più la contrapposizione armata tra Stati, ma l’esplosione di crisi in cui gruppi politici, fazioni, gruppi religiosi o etnici si misurano tra loro.

In questi contesti anche bambini e ragazzi diventano importanti: imparano presto ad usare le armi che sono leggere, automatiche e costano relativamente poco – oggi un bambino di 10 anni può utilizzare un AK-47 come un adulto; si fanno indottrinare con maggiore facilità, ubbidiscono agli ordini più docilmente di un soldato adulto, si ribellano meno anche di fronte ad azioni impegnative o pericolose. I bambini normalmente non vengono pagati: sono arruolati con promesse allettanti o costretti alla guerra e, se muoiono, per loro si trova più facilmente un ricambio.

Altri lo fanno invece volontariamente, per lo più per sopravvivere, per fame o bisogno di protezione, come nel caso dei “ragazzi di strada”. In alcuni casi ciò che spinge i ragazzi ad arruolarsi è il desiderio di ritrovare un’identità, o la volontà di rivalsa e vendetta, specialmente quando hanno visto i propri genitori o parenti subire violenze da parte del gruppo opposto.

I minori che vivono nei campi profughi (rifugiati, sfollati) sono particolarmente soggetti al rischio di arruolamento.

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Le conseguenze
I ragazzi e le ragazze che sopravvivono alla guerra, oltre ad aver spesso riportato ferite e mutilazioni, sono in gravi condizioni di salute: stato di denutrizione, malattie della pelle, patologie respiratorie e dell’apparato sessuale, e frequentemente AIDS.

Molto gravi sono le ripercussioni psicologiche che derivano dall’essere stati testimoni di atrocità o dall’averne commesse. Il disturbo che di norma si riscontra in questi ragazzi è il “disordine da stress post-traumatico” di cui i principali sintomi sono aggressività, ansia, stordimento, flashback violenti, senso di panico, insonnia e incubi anche a distanza di anni. A tutto questo si aggiungono le conseguenze di carattere sociale: la difficoltà di reinserirsi in famiglia e di riprendere gli studi spesso è tale che i ragazzi non riescono ad affrontarla. Le ragazze poi, soprattutto in alcuni ambienti, dopo essere state nell’esercito, non riescono a sposarsi e finiscono col diventare prostitute.

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I Programmi DDR
I programmi “Disarmo, Smobilitazione e Reinserimento” (DDR) sono stati inizialmente concepiti per avere come destinatari gli adulti. Nel caso dei bambini soldato devono tenerne in considerazione il vissuto specifico.

La reintegrazione è un processo di lunga durata, che mira a dare ai bambini ed alle bambine un’alternativa possibile alla loro partecipazione ai conflitti armati e ad aiutarli a riprendere la loro vita all’interno della comunità: prevede il ricongiungimento con la famiglia di origine, ove questo sia possibile, l’istruzione e la formazione, l’individuazione di strategie adeguate a sostenerli economicamente e, in alcuni casi, il supporto psico-sociale.

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Bambini soldato in RD Congo
Sebbene siano passati diversi anni dalla firma del trattato di pace del 2003, sono ancora migliaia i bambini soldato nella Repubblica Democratica del Congo, reclutati sia dall’esercito regolare che dalle varie milizie non governative tuttora operanti nelle province del Nord e Sud Kivu, nell’est del paese. Si stima che siano stati reclutati almeno 30.000 bambini.

Come conseguenza del processo di integrazione dei gruppi armati nelle forze regolari (FARDC e Police Nationale), a partire da gennaio 2009 un enorme numero di bambini soldato viene ogni giorno rilasciato ed inserito, anche se con molte difficoltà per la persistente mancanza di mezzi, nei programmi DDR.

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