Kompass 071, luce di speranza nella Bosnia ed Erzegovina

volontari nella sede di Kompass 071

Dal 2015 numerose migliaia di persone, principalmente provenienti dal Medio Oriente e dall’Africa, sono in transito sulla Rotta Balcanica, ovvero quella rotta che parte dalla Turchia e che si dirama, come suggerisce anche il nome, in vari paesi balcanici con la speranza di raggiungere l’Unione Europea. 

Le loro speranze si scontrano drammaticamente con le politiche degli stati membri dell’Unione Europea e di Frontex, l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, impegnate nel chiudere le loro frontiere anche attraverso la costruzione di muri. Proprio la costruzione di un muro al confine fra Ungheria e Serbia ha reso la Bosnia un punto fondamentale di transito all’interno di questa rotta a causa del confine con la Croazia. 

Questa novità ha cambiato il viaggio delle persone in transito sulla Rotta Balcanica, ma ha costituito un notevole elemento di novità anche per la Bosnia ed Erzegovina. In un paese ancora immerso in un post-conflitto, che ancora oggi causa divisioni e difficoltà economiche e sociali strutturali, questo mutamento geopolitico non poteva che diventare un tema centrale e divisivo nell’agenda politica, ma anche nella società civile del paese. 

Proprio all’interno della società civile bosniaca le reazioni sono state estremamente differenti fra loro, fra movimenti dichiaratamente contrari anche solo al transito di queste persone nel paese e la formazione di gruppi che hanno invece deciso di impegnarsi per aiutarsi e costruire ponti fra queste persone e la società bosniaca.

Fra chi si è distinto e impegnato nella solidarietà l’organizzazione no-profit Kompass 071, operante a Sarajevo dal novembre del 2020, rappresenta sicuramente una delle esperienze più importanti e interessanti.  Giovani animati dalla certezza di essere dalla parte giusta della storia in un momento e in un luogo così drammaticamente complicato.

Questi ragazzi sono nati durante la guerra e cresciuti in un contesto di cessazione del conflitto, ma non di pace e soprattutto di non elaborazione di tanti gravissimi lutti. Alcuni di loro sono stati profughi e probabilmente, come fanno molti giovani bosniaci, hanno pensato di abbandonare il loro paese ma poi hanno scelto diversamente. 

In un contesto divenuto ancora più critico a causa della pandemia che ha sconvolto il mondo e causato tante vittime anche a Sarajevo, la nascita di un’organizzazione come Kompass 017 si configura come un autentico fiore nel deserto e non poteva che essere supportata da una profonda passionalità, perfettamente trasmessa anche dai silenzi di Ines oltre che dalla grinta con cui si scaglia contro le politiche del governo bosniaco e dell’Unione Europea. 

Nonostante queste critiche, l’elemento più emergente di tutta l’intervista è rappresentato proprio dall’amore viscerale di Ines nei confronti del suo paese e delle persone in transito per la Bosnia ed Erzegovina e proprio da questo sentimento dovrebbe ripartire l’Europa quantomeno per rendere la Rotta Balcanica un luogo meno infernale di quanto non lo sia attualmente.

Abbiamo intervistato Ines, una delle fondatrici e principali attiviste dell’organizzazione.

Quando e perché avete deciso di far nascere Kompass?

Prima di aprire Kompass, molti di noi svolgevano attività di volontariato in Grecia, in Serbia, in Croazia e in Slovenia con le persone in transito nella Rotta Balcanica, in particolar modo con i Siriani e gli iracheni. Io invece ero in Marocco e facevo l’insegnante d’inglese in un centro culturale che operava con i bambini nella periferia di Casablanca. In quel periodo nessuno di noi immaginava che la Bosnia ed Erzegovina sarebbe diventata parte di questa Rotta, come invece è successo nel 2018. Quando sono tornata a Sarajevo ho sentito un bambino chiamarmi e mi sono resa conto che era uno di quelli ai quali insegnavo inglese in Marocco. Si è trattato di vero un punto di svolta e ho capito che non potevo restare indifferente di fronte a quanto stava avvenendo nel mio paese. Insieme agli altri ragazzi, con cui avrei poi fondato Kompass, abbiamo cominciato spontaneamente a distribuire vestiti e pasti alle persone che trovavamo nelle strade di Sarajevo. Avevamo ben poco da offrire e non ricevevamo nessun tipo di donazione. Il primo passo è stato quello di affittare un piccolo garage nel centro città, dove poter raccogliere materiale per la distribuzione e svolgere anche le prime riunioni organizzative.
Invitavamo gli stessi migranti a venire nel nostro garage in modo tale che potessero prendere ciò di cui avevano bisogno. Ci siamo resi immediatamente conto di quanta gente versasse in condizioni disperate e avesse bisogno oltre che di bevande, cibo e vestiti anche di un luogo dove potersi fare una doccia, ricaricare il proprio telefono e vivere momenti di socialità. All’epoca collaboravamo con un’organizzazione chiamata Kompass 042, che forniva servizi di questo tipo ma che si trovava vicino a una stazione ferroviaria molto lontana dal centro città. L’organizzazione disponeva di molti volontari stranieri, che sono stati costretti a lasciare la Bosnia ed Erzegovina a causa del Covid e quindi nell’estate del 2020 abbiamo deciso di dover raccogliere la loro eredità, spostando però la sede in un posto più vicino al centro città e con la necessità di trovare altri volontari. In quel momento abbiamo capito che dovevamo trasformarci da gruppo informale a organizzazione non governativa registrata.
Non è stato un passaggio facile, poiché abbiamo visto molte ONG nel nostro paese sin dal tempo della guerra e, pur con le dovute eccezioni, non nutriamo molta fiducia nel loro operato. In particolar modo avevamo constatato il loro scollamento rispetto alla società civile e temevamo che anche noi potessimo essere percepiti in modo distante e freddo proprio dalla società civile bosniaca, della quale siamo invece fieri appartenenti. Sono state discussioni dure ma alla fine siamo diventati ufficialmente un’organizzazione non governativa il 27 novembre del 2020.

Come è stato il periodo iniziale e che tipo di reazioni avete ricevuto dagli abitanti del quartiere?

La sede in cui siamo attualmente è la stessa dall’inizio e non è lontana dal centro e, inoltre siamo il primo e unico posto di questo tipo in città. Il primo periodo è stato sicuramente difficile e ogni giorno la polizia veniva a controllare da fuori cosa succedesse. Oltre a queste vi sono state lamentele da parte di due o tre abitanti del quartiere al massimo, i quali sostenevano che non fosse sicuro per i loro figli avere quest’afflusso di immigrati vicino alle loro scuole.
Gradualmente le cose sono migliorate e ora i controlli della polizia sono saltuari e spesso ci chiedono soltanto se vada tutto bene. Le istituzioni politiche ci ignoravano all’inizio e continuano a farlo oggi. Da parte degli altri abitanti del quartiere non abbiamo avuto altre reazioni negative e anzi abbiamo ricevuto aiuti anche da loro. Allo stesso tempo siamo riusciti a crescere e a migliorare nei servizi che riusciamo a dare.

A proposito di questo quali sono esattamente le vostre attività?

Siamo aperti dal lunedì al venerdì dalle 10 alle 16 e all’interno della nostra sede è possibile usufruire dei servizi igienici e di lavanderia, distribuiamo pasti già preparati e abbiamo un magazzino all’interno del quale le persone bisognose possono scegliere i vestiti che vogliono e riteniamo molto importante che la scelta sia loro e non nostra, poiché nessuno meglio di loro è in grado di capire ciò di cui hanno bisogno. Ogni giorno viene anche la Croce Rossa per un’ora, all’interno della quale è attiva in caso di emergenze o semplicemente si mette a disposizione per consulenze mediche di ogni tipo.
Oltre a questi servizi essenziali la nostra sede è a tutti gli effetti un polo di aggregazione, all’interno della quale è possibile bere una tazza di thè, un caffè, chiacchierare e leggere.Un altro elemento molto importante da sottolineare è che non aiutiamo soltanto i migranti, ma anche i bosniaci e in generale tutte le persone che hanno bisogno di aiuto, anche se la maggior parte delle persone che aiutiamo sono migranti. Durante l’estate venivano fra le cinquanta e le ottanta persone ogni giorno, mentre nelle ultime settimane i numeri sono aumentati fino ad arrivare alle cento persone e oltre. Lo scorso inverno è stato particolarmente tragico sia per la pandemia, che per l’incendio di Lipa, avvenuto il 23 dicembre del 2020 e dopo il quale molte persone provenienti proprio da Lipa sono arrivate a Sarajevo in condizioni disperate.

In che modo riuscite a portare avanti il vostro lavoro?

Ci sosteniamo principalmente grazie alle donazioni di privati o di altri enti, grazie ai quali siamo riusciti a costruire una vera e propria rete. La Caritas ci dona ogni giorno 70 pasti caldi già preparati, anche perché per motivi sanitari non possiamo cucinare nella nostra sede, e siamo poi aiutati da altre organizzazioni provenienti da vari paesi europei, ad esempio Germania e Svizzera come per esempio il collettivo Frah, ma anche l’Italia nel caso dell’organizzazione Rivolti ai Balcani. Grazie a un’altra organizzazione italiana, Mediterranean Hope stiamo cercando di aprire un’altra sede dove svolgere le stesse attività a Bihac.

Dal vostro punto di vista come valutate quanto sta avvenendo in Bosnia ed Erzegovina per quanto riguarda il suo coinvolgimento nella rotta balcanica?

La situazione è contemporaneamente drammatica e molto complicata. Sicuramente è leggermente più sostenibile a Sarajevo rispetto al cantone di Una Sana, facendo riferimento soprattutto alle tragiche situazioni di Velika Kladusa e di Bihac, anche a causa delle peggiori condizioni economiche dei cittadini bosniaci in queste zone. Noi per primi ci poniamo come obiettivo quello di non alimentare ulteriormente le ostilità fra i migranti e i bosniaci e riconosciamo quanto le condizioni di vita possano, con tutte le differenze del caso, essere estremamente difficili e svantaggiate per entrambi. Sin dai tempi della guerra e anche oggi ci sentiamo abbandonati da parte dell’Unione Europea, che accusiamo di ipocrisia per come sta gestendo il fenomeno migratorio.
Il nostro paese è completamente disfunzionale per tantissimi differenti motivi e non è in grado di gestire questa situazione. Per quanto mi riguarda se penso alle istituzioni europee e a quelle bosniache entro in un circolo vizioso di emozioni negative, che mi crea una profonda frustrazione. Nello stesso modo in cui l’Unione Europea ignora la Bosnia ed Erzegovina, allo stesso modo i nostri politici vorrebbero provare a ignorare e a nascondere i migranti. Per questo motivo non mi aspetto nulla né dall’Unione Europea né dal nostro governo e forse proprio questa sfiducia mi ha portato a un forte impegno personale per aiutare chi è in difficoltà a prescindere dalla nazionalità o da qualsiasi altra cosa.

Paolo Castelli
giovane romano “Casco bianco” con Caritas Italiana a Sarajevo

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