Il pomeriggio di giovedì 25 novembre una pioggia leggera cadeva sulla città. Il telefono squilla: “ciao, vorrei chiederti una preghiera per il nostro fratello sacerdote don Roberto”.
“Don Roberto?” Domando. “Si, don Roberto Guernieri”.
Non sono riuscito a pronunciare parola. Nella mia mente, come un nastro si riavvolgeva un susseguirsi di pensieri, immagini nitide di qualche settimana fa al nostro ultimo incontro, altre un po’ ingiallite come vecchie foto, di un don Roberto un po’ giovane ai tempi del seminario degli oblati della Madonna del Divino Amore, altre di un don Roberto energico e forte ai tempi del Centro giovani della Caritas alla stazione Termini; altre di un don Roberto provato, un po’ deluso, infermo; altre ancora di un don Roberto spontaneo, sorridente, allegro ed altre di un don Roberto pensieroso, dolce e distratto.
Tante immagini riconducibili a tanti momenti della sua vita. In tutte le immagini ed in tutte le situazioni che scorrevano veloci nei miei pensieri mi colpì costatare che in esse non era mai solo: con lui c’erano gli amici di sempre, i ragazzi tossicodipendenti della stazione degli anni novanta, i malati di aids dell’ospedale Gemelli che lui andava a trovare la sera in quegli anni di incertezze, di paure, di allontanamenti, per loro, degli affetti; c’erano i suoi ragazzi, come li chiamava, del carcere di Rebibbia, i volontari, i suoi fratelli sacerdoti, le guardie carcerarie, i magistrati, i suoi compaesani di Ostiglia e Mantova che ogni anno tornavano per la sua festa di compleanno, dove lui, don Roberto, si offriva per un saluto, una parola, uno sguardo di amicizia e per raccogliere fondi per i detenuti, per comprare… “Gonzà, ci sono alcuni che non hanno che un solo paio di mutande”.
Il suo chiodo fisso era il Signore, un Gesù sofferente che lo interrogava con lo sguardo di Carmine, Efisia, Salvatore, Giuseppe, Tino, Gianni, Paoletta e tanti altri dei ragazzi della stazione Termini che accoglieva nel suo ufficietto al centro giovani nel sotterraneo. Per loro, diceva, “dobbiamo fare sempre qualcosa” e tu capivi la sua preoccupazione quando si estraniava e rispondeva appena per poi dire all’improvviso, nel mezzo di un discorso sui conti, sulle strategie, sui programmi: “ma che fine avrà fatto, coso, che non si vede da tanto tempo?”
Negli anni Novanta la stazione Termini era un crocevia di storie di vita: ragazzi scappati da casa, alcuni minori che la stazione inghiottiva con le sue fameliche fauci della delinquenza, della prostituzione minorile, della droga. La stazione di Luigi il teschio ed altri piccoli boss dei sotterranei oscuri, dei disperati in cerca di carezze d’amori furtivi, di giovani senza futuro che ostinatamente chiedevano di sfogliare il “Portaportese” il giornale degli annunci e offerte di lavoro; la stazione dei protettori, delle prostitute anziane truccate come ventenni e delle ventenni per i manager di passaggio per la capitale; la stazione della polizia che alla vigilia dei Mondiali 90, allontanava insistentemente i gruppi di disperazione che toglieva lucido ad una città vestita a festa. Ma era la stazione anche di chi, come padre Peter, un sacerdote inglese che marcava il territorio alla ricerca di anime ed anche di corpi da salvare, di suor Consuelo di via Monte del Gallo, che con altre consorelle, si aggirava per i corridoi bui per strappare qualche giovane vita ai tanti lucignoli e saltimbanchi di un paese dei balocchi coi binari e le fermate degli autobus a fare da cornice, apparentemente normale, ad un angolo di disperazione. Di Giulia e di Federica. C’era anche lui, don Roberto e i suoi ragazzi: noi, allora giovani e pieni di entusiasmo a seguire un profeta dei tempi come don Luigi di Liegro, un uomo con lo sguardo fisso qualche anno avanti agli eventi, che aveva catturato nelle sue vedute tanti giovani obiettori di coscienza. Lui, Roberto, era uno di loro. Aveva abbracciato la causa, catturato anche lui da chi diceva che “per amore bisogna sporcarsi le mani, entrare nella mischia” ecco, don Roberto si era buttato nella mischia in quel shakerato di storie storte per cercare di raddrizzarne qualcuna. I suoi occhi brillavano alla notizia di qualche obiettivo raggiunto: un ragazzo in comunità per tossicodipendenti, un posto di lavoro, un rientro a casa, un contatto istituzionale, il coinvolgimento di una rete nascente di persone, di associazioni di enti.
Don Roberto, gli volevi bene da subito. Ti coinvolgeva con le sue battute, con il suo dialetto mantovano fortemente marcato, con le sue uscite un po’ ingenue ma anche con le sue riflessioni profonde sul vangelo che si attua nelle persone e che attraverso di esse ti presenta un Gesù vivo, attuale, che percorre con te, insieme a te le vie della sofferenza.
Il nastro delle immagini si ferma in quelle della preghiera: le celebrazioni eucaristiche, le meditazioni davanti al Santissimo, le riflessioni davanti alla sofferenza di Cristo, i sacramenti.
Gli anni della stazione Termini furono gli anni del contagio e lui ne fu l’untore. Chi lo seguiva si è fatto contagiare del suo modo di vivere il vangelo con la predilezione per gli ultimi. Questo succedeva più di trent’anni fa e per alcuni di noi che con don Roberto abbiamo incontrato il Signore nei volti della sofferenza, succede ancora.
L’ultima immagine di don Roberto si ferma davanti ai miei occhi sabato 27 novembre scorso, alle ore 15.30: Nella Messa al Santuario della Madonna del Divino Amore, circondato dai suoi fratelli sacerdoti, dai suoi tanti amici e conoscenti, lo vedo in una immagine storpiata dalle lacrime, in un angolo, seduto mi guarda meravigliato, col suo sguardo tipico nel dire: “che esagerazione” mentre viene ricordato per le sue opere di bene in favore degli ultimi. Si meraviglia del rumore, sorride incredulo a tanto clamore; lui che amava il silenzio del bene guarda in alto e domanda:
“Signore, quando mai ti ho veduto affamato e ti ho dato da mangiare, assetato e ti ho dato da bere? Quando ti ho visto forestiero e ti ho ospitato, o nudo e ti ho vestito? E quando ti ho visto ammalato o in carcere e sono venuto a visitarti?
L’ultima immagine, prima di vedere uscire la bara dal santuario è l’abbraccio del Signore che risponde:
“In verità ti dico: ogni volta che hai fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’hai fatto a me”.
Grazie don Roberto.
Gonzalo Castro Cedeno
Area Sanitaria Caritas di Roma