Rimetti a noi i nostri debiti

Rebibbia  Carcere Femminile.Rebibbia Prison WomenRimetti a noi i nostri debiti dice la preghiera che ci ha insegnato Gesù. Parole belle ma difficili quando il debito è alto, quando la colpa che ci portiamo addosso è grave, quando i nostri errori sono ricaduti pesantemente su altri.
Rimetti a noi i nostri debiti. È una frase che risuona silenziosa ma potente nelle sezioni delle carceri, tra gli uomini e le donne che stanno scontando la loro pena, ma che spesso chiedono altro. Chiedono di poter ripagare quella colpa, di poter ristabilire quel rapporto sfregiato, di poter ricucire quella ferita che ancora sanguina e provoca dolore. Persone che da un atto di misericordia e di perdono potrebbero ricominciare a vivere e consentire a chi ha subìto di rompere la catena dell’odio e ricominciare anche a loro a vivere.
Il dialogo, la riconciliazione, l’incontro tra Caino e Abele, tra chi ha provocato il male e chi lo ha subito sono momenti di vera liberazione e di vera trasformazione per tutti: vittime e colpevoli.
È un percorso lungo, fatto di dolore e di gioia, di speranza e di disperazione, di rabbia e di voglia di riprendersi la vita. È un cammino che richiede il coraggio di guardarsi allo specchio, anche quando il proprio volto è trasfigurato e deformato dal male, di guardarsi dentro, di cambiare. È una strada che passa per la coscienza dell’abisso di male di cui ognuno di noi è capace, per il riconoscimento delle proprie responsabilità e per il desiderio di provare a ricomporre quello sfregio, per la voglia di ristabilire quel rapporto rotto.
È una strada di rinascita per chi è schiacciato dal dolore e dal rancore. È la via dell’incontro, del dialogo, della voglia di fermare l’odio e la vendetta per costruire insieme un mondo diverso, riconciliato, riappacificato. Senza dimenticare nulla, senza cancellare le responsabilità, ma senza rimanere fermi, quasi pietrificati, a quell’attimo che ha cambiato la vita dell’uno e dell’altro.
È quella che si chiama giustizia riconciliativa. Una giustizia che ha a cuore il bene di tutti: della vittima, del reo e della comunità intera. Una giustizia fondata sull’idea che “ai processi si va con un ago per cucire e non con un coltello per tagliare”, come dice un proverbio sudafricano. Una giustizia in cui la vittima ha un ruolo, ha diritto a essere ascoltata, ha diritto di parola, di sentimenti, di guardare in faccia il reo, ma non ha diritto di vendetta.
Come Caino su cui Dio pose il suo segno perché nessuno lo toccasse. Come Caino, primo omicida, che è divenuto costruttore di città. Questa l’idea della giustizia riconciliativa: una giustizia che libera davvero, non dalle responsabilità, a cui invece ognuno è chiamato ancor di più, ma dal peso della colpa da una parte e dal peso dell’odio dall’altro.
Una giustizia che riconosce l’uomo e la donna, anche se colpevoli, che cerca di far riemergere quell’umanità perduta. E dall’incontro e dal dialogo nascono realtà nuove, inedite, più grandi del male stesso. Come è accaduto in Toscana dove la madre di chi aveva ucciso e la moglie di chi era stato ucciso hanno unito i loro dolori per dare vita a un’associazione che di occupa dei giovani a rischio, perché nessun altro debba conoscere quel dolore e quella violenza.
Ed è proprio l’incontro che cambia: quel guardarsi negli occhi, quei silenzi, quelle parole che escono a fatica o con forza, quella voglia di fare capire il peso delle azioni, quella rabbia che all’improvviso si trasforma in qualcos’altro, in un cammino da fare insieme, Caino e Abele insieme, aiutandosi reciprocamente a ritrovare la pace e la libertà.
È dall’incontro che trova nutrimento il dono del perdono, in un capovolgimento scandaloso del cristianesimo che chiede proprio alle vittime di convertirsi e di offrire il perdono. E quando succede, questo amore colpisce i cuori e cambia. Così è accaduto negli anni di piombo dopo la preghiera di Giovanni Bachelet al funerale del padre Vittorio, ucciso dalle Brigate Rosse: “Preghiamo per gli uomini che hanno ucciso il mio papà”. Poche parole che hanno attraversato i muri delle prigioni, le sbarre delle finestre, i cuori induriti, costringendo le persone a pensare, a interrogarsi, a capire il perché di un gesto così folle, come quello del perdono. ”Ricordiamo bene le parole di suo nipote durante il funerale del padre – scrissero poco dopo diciotto uomini degli anni di piombo a Padre Adolfo Bachelet, fratello di Vittorio. Oggi quelle parole tornano a noi e ci riportano là, a quella cerimonia, dove la vita ha trionfato sulla morte e dove noi siamo stati davvero sconfitti, nel modo più fermo e irrevocabile”.
Da quel perdono donato, da quell’atto di misericordia e non di condanna sono nati percorsi di cambiamento, di vita, di speranza. La vita ha trionfato sulla morte.
Perdonare e non condannare, perché a questo pensa la giustizia. Noi cristiani siamo chiamati a visitare i carcerati, una delle opere di misericordia. E sono tanti i modi per visitare i carcerati: facendo volontariato nelle carceri come fanno moltissimi cristiani e non, accogliendo fuori chi esce e non sa da dove ricominciare, dando loro un lavoro per tentare una via diversa, dando loro amicizia, sostenendo le loro famiglie. Tutte azioni che richiedono l’abbandono di ogni giudizio di condanna, che richiedono che ognuno di noi si tolga l’aurea di “giusto” per condividere con chi ha sbagliato, sapendo che ognuno di noi è capace di male. Azioni che ci portano a interrogarci nel profondo “ma io dove ero quando quest’uomo ha sbagliato”, rovesciando la risposta di Caino “sono forse io responsabile di mio fratello”. Sì. Ognuno di noi è responsabile della vita dei propri fratelli e delle proprie sorelle, soprattutto nel momento del dolore, dell’abisso, del buio del male.
Nell’anno del Giubileo della Misericordia, con le Porte Sante aperte in ogni cappelle di prigione, con le porte delle celle che diventano esse stesse Porte Sante “ogni volta che passeranno per la porta della loro cella, rivolgendo il pensiero e la preghiera al Padre”, come ha detto Papa Francesco, siamo convinti che la misericordia di Dio, capace di trasformare i cuori, è anche in grado di trasformare le sbarre in esperienze di libertà.
Rimetti a noi i nostri debiti è la nostra preghiera al Padre, come noi li rimettiamo ai nostri debitori. E torna alla mente la risposta di Gesù a chi voleva lapidare la donna adultera: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”.
Nel giudizio finale, quando saremo faccia a faccia con il Padre, sarà la nostra vita a farci passare da una parte o dall’altra. Saranno i nostri comportamenti, le nostre scelte, i nostri perdoni o le nostre condanne. Saranno i poveri che avremo nutrito, dissetato, accolto, consolato, visitato. Saranno i forestieri che abbiamo ospitato senza sapere che fossero degli angeli. Saranno gli uomini e le donne che abbiamo visitato in carcere quando erano detenuti e quando sono tornati liberi.
Perché ogni atto di amore è un atto di libertà, che dona libertà e salvezza. Come è accaduto al ladrone crocifisso a fianco di Cristo a cui Gesù ha donato la vita eterna, senza chiedere niente in cambio. Perché – come ha detto Papa Francesco – “non c’è crimine o peccato che possa cancellare l’uomo dal cuore di Dio misericordioso”.
Allora in questo anno giubilare della misericordia, proviamo a mettere in pratica le parole di San Paolo nella lettera agli ebrei: “Continuiamo a volerci bene, come fratelli. E tutti noi ricordiamoci di quelli che sono in prigione, come se fossimo anche noi prigionieri con loro!”.
Questo è l’amore della misericordia: la condivisione fino in fondo. Come se fossimo anche noi prigionieri con loro.

Daniela De Robert
volontaria del VIC-Caritas
Componente del collegio del Garante nazionale dei detenuti e delle persone private della libertà