Quando senti la misericordia fin dentro le viscere

lacrimeLa maglietta rossa, sporca. Un jeans un pò logoro, sporco. Scarpe da ginnastica nere. Il viso perso, stanco, logoro pure lui. I lineamenti sono marocchini, non ho quasi dubbi. Mi sento chiamare da dietro il mio bancone in accoglienza, è un lunedì pomeriggio di fine luglio e al poliambulatorio Caritas siamo in tanti. Mi sento chiamare da te, senza voce, dallo sguardo. Infatti mi giro e sei lì che vuoi aiuto ma non sai come dirmelo e non è la lingua l’ostacolo. “Come stai? Come posso aiutarti?”, “Io sono pazzo, mi servono medicine. Ma nessuno mi dare medicine”.

Hai una cicatrice sul viso, sento l’alcool che trasuda dai pori della tua pelle e arriva fino a me, ti scruto negli occhi e leggo confusione, seguo i movimenti delle tue mani, delle tue braccia scoperte e noto lividi e ferite. Ti fermo la mano e ti chiedo: “E queste? Dove le hai fatte? Sei venuto per farti curare queste?”. No, non sei venuto per quelle. Ti serve un certificato, vuoi parlare con qualcuno che ti dia un certificato dove attestare che tu sei pazzo.

Parliamo a lungo mentre aspetti: ti ho convinto ad attendere per la medicazione, per la visita e poi si, anche per il certificato. (…). Dimentichi tutto troppo facilmente: hai perso i documenti, non sai dove lasci le chiavi, non sai come ti sei procurato questi lividi. Ma ti ricordi che alle 19.30 la mensa Caritas chiude e se non vai via in fretta stasera non si mangia. Ti dico che a me non sembri matto, che mi piacerebbe se tu continuassi a parlarmi di come si lavora il marmo, di dove hai imparato. Sorridi, mi guardi stranito, come se fossi un’aliena e sorridi. (…)
L’infermiera non ha tempo stasera, è tardi e tu rischi di perdere la mensa. Per il certificato passerai domani, il dottore, preoccupato e impotente, ha provato a visitarti a modo suo, “ma – dice – non è il tuo corpo il problema, qua serve uno psichiatra”. Da cosa l’ha capito? Dalla storia sulla cartella clinica.

Io pensavo che innanzitutto ci fosse bisogno di toccarti, di prendersi cura di te e ricominciare da capo. Non “un paziente psichiatrico” davanti a me, ma una persona con il suo corpo che aveva bisogno di cura. Il dottore è gentile, i punti te li leviamo noi e ti medichiamo anche la ferita sulla caviglia, incrostata e profonda. Lui è impacciato, goffo, niente a che vedere con la grazia delle mani delle infermiere. Resto io, ti invito a piegare il capo: ti lavo un pò le ferite sul viso. Tu chiudi gli occhi e ti abbandoni. Dolce e indifeso come un bambino, come Cristo penso io.
“Va bene, per stasera può andar bene così”, apri gli occhi che mi sembrano più vivi ora, il volto disteso come dopo aver ricevuto un massaggio. “Ora però mi fai una promessa: che vai a casa, ti fai una doccia, ti cambi i vestiti e domani torni per le altre medicazioni e per il certificato. E ti prendi cura di te, me lo prometti? Tu non sei pazzo e secondo me insieme la paura la possiamo lavare via, che dici?”, “Dico che se faccio la doccia vanno via i cerotti, come faccio?”. Sorrido anch’io, i cerotti non andranno via.
Tu si, però. Corri verso la mensa, magari ce la fai a cenare.

Questa storia è tratta dal diario di Antonella, giovane volontaria del lunedì pomeriggio al poliambulatorio Caritas e dice molto di noi, delle vite fragili che incontriamo, del visitare gli ammalati.

Qual è il senso profondo del nostro servizio? Succede spesso di sentirsi impotenti come operatori sanitari quando i pazienti sono persone così vulnerabili, malati nel corpo e segnati da una vita difficile, in cui hanno sperimentato dolore, abbandono, violenze, emarginazione, che spesso vivono per strada tra l’indifferenza dei più. Cosa può fare un medico davanti a queste ferite?

La Pasqua è appena passata ed ogni anno, il venerdì santo, nella descrizione della Passione di Gesù sento attuali tutte le Sue sofferenze attraverso le storie che i nostri pazienti vivono e ci raccontano. Tanti anni fa, un sacerdote molto caro mi disse che l’unico modo per reagire alle ingiustizie e al male è quello di rimboccarsi le maniche e mettere la propria professionalità al servizio di chi soffre. Adesso a distanza di anni scopro il senso profondo del mio essere medico, che non è (solo) curare una malattia o medicare una ferita, ma, attraverso questa preziosa occasione d’incontro (visitare gli ammalati), è essere misericordiosi cioè con il cuore (cor) vicino ai poveri (miseri). Quando sperimentiamo questo sentimento, lo sentiamo fin dentro le nostre viscere, scompare l’inquietudine che il senso di impotenza generava e ci sentiamo rigenerati e anche i pazienti proprio come la persona del racconto di Antonella, si sentono meglio con gli occhi più vivi e il volto disteso come dopo aver lavato via la paura.

Fabiana Arrivi
medico del Poliambulatorio Caritas di via Marsala