Cosa hanno da dirci quelle morti in solitudine

Una rubrica realizzata dai volontari e dagli operatori del servizio domiciliare “Aiuto alla persona” per ricordare e denunciare le morti di tre anziani emarginati che vivevano nascosti nelle loro case sporcizia e abbandono.

La situazione dei poveri, delle persone fragili, degli anziani, e degli “ultimi” sta sempre più peggiorando all’interno del nostro paese. Le continue crisi economiche, l’indebolimento sempre più marcato del tessuto sociale, la pandemia e una società sempre più egoista hanno accentuato la povertà, il bisogno e soprattutto la solitudine. Tutto ciò è ancora maggiormente percepibile nelle grandi città, in cui problemi antichi si mescolano più velocemente e più profondamente con problemi attuali. La nostra città, Roma, non è diversa dalle altre; anzi, viste le sue dimensioni, il numero di persone che la abitano e l’estrema eterogeneità delle stesse, può essere indicata come un ottimo metro di giudizio della situazione generale. Come operatori della domiciliare della Caritas di Roma ogni giorno ci troviamo a fare i conti con i problemi sopra descritti. Conoscendo bene la disperazione di certe condizioni limite dell’esistere e potendo cogliere da un lato un continuo peggioramento delle stesse e dall’altro la nemmeno tanto nascosta indifferenza verso tali circostanze, abbiamo deciso di intraprendere un percorso di emersione e sensibilizzazione, quasi una denuncia dello stato delle cose, nella speranza di poterle cambiare insieme attraverso una sensibilizzazione maggiore rispetto alla realtà che tutti viviamo.
Non volendo ricoprire il mero ruolo di segnalatori di salme, abbiamo deciso di proporre delle testimonianze scritte su quelle morti. Riflettere sulle situazioni che le hanno rese possibili e riflettere su quello che tali morti avevano lasciato a noi stessi, come persone, prima che come professionisti.

A Giovanni …. con affetto e stima.

Basta! Basta, dai! Smettila di bussare alla porta e di urlare Giovanni per tutto il condominio! So chi sei. Sei quel fesso della Caritas. L’unico che continua a cercarmi. L’altra volta ce l’hai fatta e la tua ostinazione mi ha regalato, purtroppo o per fortuna, un’altra manciata di giorni. Ma oggi no, sei arrivato tardi. Smettila di chiamarmi e di bussare, non posso più risponderti né aprirti la porta. Sono morto e dall’alto vedo il mio corpo steso in terra, immondizia fra l’immondizia. Ora sto bene; niente più affanno ne dolori, finalmente. Solo adesso, sereno, mi rendo conto di come ho ridotto la mia casa. Non è stata sempre così. Un tempo, quando facevo il professore, ne avevo tanta cura. I miei studi, i miei studenti, la passione che mettevo nelle cose di cui mi occupavo si manifestavano anche nel decoro della mia casa. E poi, il giardino … Ho sempre amato le piante, in particolare il fico d’india. Forse perché mi ricordava la terra dove sono nato. Lentamente, nel corso del tempo, le cose sono cambiate, io cambiavo. Non so perché, forse la vecchiaia, forse la malattia, hanno fatto sì che la mia vita prendesse un’altra forma. A dire il vero sentivo sempre più di essere stanco, in generale dell’ipocrisia – sperimentata parecchie volte – del mondo. Stanco della velocità e della superficialità che stavano sempre più definendo il concetto di vita. Stanco di vedere troppi valori scadere in meri interessi. Così, quasi non accorgendomene, ho cominciato a lasciarvi fuori. Sì è così, proprio così. Sentivo di dover reagire e l’ho fatto come ho potuto. Non mi sono chiuso dentro, vi ho lasciati fuori. Da lì, la casa, la mia casa, ha cominciato ad avere l’aspetto che l’ha portata ad essere quello che oggi è. Non buttavo più nulla, anzi, cercavo cose ovunque, anche nei cassonetti e me ne appropriavo stoccandole così, senza un ordine, volutamente mischiandole le une alle altre senza badare a cosa fossero. Vestiti, utensili, cibo, spazzatura, libri, oggetti di ogni tipo … Ho cominciato a non voler vedere più nessuno e per gli altri è stato più facile non volermi vedere. Anche il mio giardino, una volta curato, man mano è divenuto caotico pieno di piante di fico, di kiwi e anche lì, visto che in casa non c’era più posto, di oggetti, tanti, inutili a cui davo ospitalità per il periodo finale della loro esistenza. Mi piaceva pensare questo e la solitudine diventava più facile da subire seguendo tali pensieri. Immaginavo che ogni oggetto avesse una sua vita, dei ricordi, e provavo a rintracciarli, spesso inventarli. Davo alle cose un’importanza superiore a quella del loro semplice, funzionante utilizzo. Quasi li personalizzavo, almeno all’inizio, mi davano sostegno. Poi … non so, non ho capito più perché lo facessi ed è restata solo l’abitudine a farlo e la solitudine a farla da padrona.  Ora la casa si è riempita di persone. Vigili del fuoco, infermieri, carabinieri. Il mio corpo sempre lì a terra circondato da questi sconosciuti. Non permettetevi di giudicarmi. Non fatelo. Non tirate in ballo il degrado del quartiere in cui vivo, non parlate di me come se io fossi stato sempre come mi vedete, non di dove può portare la mente umana. La follia non esiste come non esiste la normalità. Io sono stato quello che infinite variabili, intersecandosi le une con le altre, hanno fatto sì che fossi. Tutto qua. Sono stato bambino come voi, ho lavorato e trascorso la mia vita come voi e non sentitevi immuni rispetto a quello che mi è capitato, né migliori perché a voi non capiterà di certo. Non seguite inutili, stupide certezze, non sentitevi salvi o baciati dalla fortuna … potrebbe un giorno cambiare tutto, come è successo a me.

Davanti al mio cadavere adesso c’è il fesso della Caritas. Che faccia che ha. Poveretto, quante volte l’ho fatto venire per aiutarmi a buttare delle cose e quante volte l’ho mandato via a mani vuote. Dice annuendo a tutti gli altri che il cadavere sono effettivamente io. Nel casino della mia casa non sono riusciti a trovare nessun documento. Mi viene da pensare a quanto sia immediata la morte. Semplice, liberatoria. È bastato morire per avere la casa piena di gente. Prendersi cura dell’altro invece è impegnativo; costa fatica, tempo, impone dedizione. La morte no. Facile, rassicurante. I condomini si libereranno dello zozzone al piano terra, finalmente. Non ci sarà più nessuno che dovrà fare i conti davanti allo specchio per ciò che ha fatto o che non ha fatto per quello zozzone. Anche le istituzioni saranno alleggerite dal peso della responsabilità; per non parlare dei parenti che, non a caso, non ho mai citato ma che arriveranno come avvoltoi a rivendicare la carcassa dei miei beni materiali.

In casa ora fa la sua entrata Il necroscopo. Anziano, ma ancora tritamente convinto di poter attirare attenzioni con le sue belle scarpe, i capelli impomatati, giacca e pantaloni forse troppo aderenti per un uomo di quella età. Non so immaginare dove abbia scordato o perduto il decoro che ci si aspetterebbe dal suo ruolo e dal grigiore dei pochi capelli ma … sentenzia: “Incredibile che una persona sia lasciata vivere da sola in questa maniera!” Il fesso della Caritas lo guarda … male, anzi, molto male. E guarda male anche tutti gli altri presenti e non fa distinzione fra le varie divise. Guarda male tutti. So quello che sta pensando e sono d’accordo con lui. Pensa: Giovanni non era solo, era con me. L’ho salvato una volta ma, oggi non ce l’ho fatta. Voi dove eravate? Siete arrivati qui perché io vi ci ho condotti. Altrimenti fra giorni, forse settimane, avreste dovuto seguire la puzza per trovarlo. Credo che tutti abbiano compreso gli sguardi del fesso. Abbassano la testa e lentamente, un po’ alla volta, escono.

Guardo Fabio e mi pento di averlo chiamato fesso fin qui; e di non averlo ringraziato, vorrei tanto farlo adesso. L’essere fessi oggi significa essere eroi. Eroi del nulla, chiaro. Infaticabili combattenti destinati ad essere sconfitti senza ottenere alcun riconoscimento. Se le cose serie vengono sistematicamente sminuite e svuotate di significato e, al contrario, l’effimero, il superficiale, diviene motore del mondo, le persone fesse sono coloro che si oppongono a tali circostanze. Coloro che, con la baldanza temeraria di Don Chisciotte, affrontano le avversità mentre, al tempo stesso, con la paziente tenacia di Sisifo, cercano di convincere sé stessi e gli altri che il diverso non esiste.

Guardo Fabio. Dall’alto del mio star bene, ora. So che ci siamo capiti. Immagino la sua vita, piena di problemi come solo la vita sa essere. Mi piace pensare che abbia mangiato i kiwi del mio albero che gli ho donato anche se, francamente erano ancora poco maturi. Mi piace pensare che tornando a casa mi dedichi un pensiero ed una lacrima allo stesso modo di come ha saputo strapparmi un sorriso quando c’era poco da stare allegri. So che mi ricorderà anche se preso nel quotidiano, disperato e persistente slancio frenetico di valorizzare la vita.

Fabio Marini
operatore domiciliare della Caritas di Roma