L’impatto della pandemia sulle migrazioni

La pandemia da Covid-19 ci ha mostrato il significato più esteso e profondo del termine “salute”. Non solo ce lo ha rivelato nella sua dimensione globale, ma ha anche evidenziato il legame che la salute ha con le altre dimensioni del nostro vivere, con le relazioni, con il lavoro, con l’economia, con l’ambiente. E ci ha messo tutti di fronte alla nostra vulnerabilità. Non solo di Covid si sono ammalate (e hanno perso la vita) milioni di persone nel mondo, ma un numero infinitamente più ampio ne sta pagando le conseguenze in termini di sofferenze personali, tra lutti, perdita del lavoro, povertà, destabilizzazione delle piccole e grandi certezze su cui ognuno aveva costruito fino ad oggi la propria vita.

Papa Francesco ci ha ammonito su una delle conseguenze della Pandemia, ovvero l’aumento delle disuguaglianze nel mondo: “Mentre il virus non fa eccezioni tra le persone, ha trovato nel suo cammino devastante grandi diseguaglianze e discriminazioni. E le ha aumentate!”

La Pandemia in corso tocca infatti ogni aspetto dei sistemi politici, economici e sociali globali e ha importanti ripercussioni sulla mobilità e sulle migrazioni, sulla governance delle migrazioni stesse, sui diritti fondamentali e le condizioni di vita dei migranti, evidenziando le diseguaglianze  e le vulnerabilità preesistenti. Oggi nel mondo sono circa 272 milioni i migranti internazionali (cioè coloro che hanno superato i confini del proprio paese di origine), di questi 164 milioni sono migranti lavoratori e  80 milioni le persone costrette a fuggire dal loro paese (UNHCR).

L’ultimo rapporto ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro) fotografa l’impatto devastante della pandemia sul mercato del lavoro:   sono 255 milioni posti di lavoro persi nel mondo nel 2020 e il  tra i 400 e i 500 milioni le persone che per gli effetti della crisi scivoleranno verso la povertà, con un reddito inferiore ai 5 dollari giornalieri, mentre si prevede che ulteriori 120-130 milioni di persone  scenderanno nel corso dei prossimi mesi al di sotto di 1.5 dollari giornalieri di reddito. A questo ulteriore incremento della povertà contribuirà anche la diminuzione delle rimesse dei lavoratori migranti, con le quali vengono sostenuti circa 800 milioni di loro familiari nei paesi di origine: nel corso del 2020 queste hanno subito una diminuzione di oltre il 20%, con un ulteriore peggioramento delle spesso già umili condizioni di vita dei destinatari. 

Tutto questo non potrà non avere conseguenze sulle migrazioni e sui processi di integrazione, con un sempre più forte contrasto alla mobilità internazionale e una percezione delle migrazioni come ulteriore fonte di problemi. L’ultimo Rapporto ISMU mette in evidenza infatti come l’atteggiamento verso gli stranieri immigrati negli ultimi dieci anni sia diventato sempre più respingente. Dal 2010 ad oggi è passata infatti dal 24,8% al 35,2% la percentuale di coloro che ritengono che “gli immigrati portano via il lavoro agli italiani” mentre al contrario è passata dal 60,4 % al 46,9% la percentuale di coloro che concordano che “gli immigrati contribuiscono alla crescita economica del nostro paese”. Nello stesso periodo è inoltre passata dal 60,4% al 46,9% la percentuale di coloro che si dichiarano favorevoli allo ius soli.

Al progressivo e sostenuto aumento dei migranti nel mondo si contrappone una sempre più diffusa politica di muri, di porti chiusi e di respingimenti a tutti i costi, compresi i costi in vite umane. Ogni giorno leggiamo le notizie e vediamo le immagini, purtroppo nell’indifferenza più o meno generale, di ciò che accade nei lager libici, delle morti nel Mar Mediterraneo, delle indegne condizioni di vita nei campi dell’isola greca di Lesbos, o  i respingimenti di massa nel freddo e nella neve lungo la rotta balcanica al confine tra Croazia e Serbia.

La chiusura di canali di ingresso legali e la riduzione della mobilità a causa della pandemia hanno lasciato come ultima chance a tante persone in fuga da guerre, persecuzioni e disastri ambientali i cosiddetti “viaggi della morte”, che prevedono l’attraversamento irregolare delle frontiere; viaggi, questi, in cui sono confluiti anche molti migranti economici, costretti dalle stesse politiche di chiusura, a mescolarsi con quelli forzati (flussi misti) per tentare l’ingresso e poi cercare di legalizzarlo attraverso la richiesta di asilo.

Tutto ciò, unito agli effetti dell’entrata in vigore nel 2018 dei “Decreti Sicurezza” che hanno abolito la “protezione umanitaria” ed espulso dal sistema di accoglienza (ora SAI Sistema Accoglienza e Integrazione) oltre 100.000 persone, ed alla drastica riduzione di riconoscimenti delle domande di protezione presentate in Italia (dal 32.2% del 2018 ad appena il 19.7% del 2019 – la metà della media EU), ha concorso ad ingrossare strutturalmente le fila dei migranti irregolari nel nostro Paese.

La crisi sanitaria conseguente alla pandemia si è quindi innestata in un contesto già esistente di difficoltà economica che durava ormai da oltre un decennio e di ostilità nei confronti dei migranti.

Sebbene l’emergenza Covid abbia fatto emergere il contributo fondamentale dei lavoratori stranieri proprio in settori chiave per il contrasto alla pandemia (sanità, servizi di cura della persona, pulizie, settore agroalimentare, trasporti ecc.), questi lavoratori sono stati i più colpiti dalle conseguenze economiche e sociali della crisi.

Al prezioso contributo assicurato dai lavoratori migranti corrisponde sempre meno il giusto riconoscimento in termini di diritti e qualità della vita, con un forte aumento della loro marginalizzazione, che nelle forme più gravi si concretizza in aumento dello sfruttamento e nel peggioramento delle condizioni di vita in ghetti e baraccopoli.

In Italia l’emergenza sanitaria ed economica causata dal Covid nel 2020, i cui effetti sul mercato del lavoro non si sono ancora del tutto manifestati (e comunque i dati ufficiali parlano di oltre 440.000 posti di lavoro– di cui quasi l’80% donne- già persi a fine 2020), ha colpito prevalentemente i lavoratori stranieri meno tutelati, soprattutto nel settore agricolo e nel comparto domestico. Mentre infatti l’occupazione tra i lavoratori italiani è diminuita del 2.7%, tra gli stranieri la diminuzione è stata del 10.23%(Fonte Sole 24 Ore).  

Nelle campagne l’intreccio tra pandemia e consolidato sistema di sfruttamento ha determinato un aumento, che la UIL stima tra il 15 e il 20% (+ 40-55.000), dei lavoratori sfruttati nelle campagne, con il tasso di irregolarità balzato dal 39% (dati 2018-2019) al 49% del 2020. Ciò significa che nelle campagne un bracciante su due è impiegato in modo irregolare. La contemporanea “concorrenza” di lavoratori italiani che, avendo perso il lavoro, si sono riversati su settori tradizionalmente occupati dagli stranieri, ha fatto aumentare l’offerta con conseguente peggioramento delle condizioni di lavoro in termini di riduzione dei salari, prolungato orario di lavoro e mancanza di diritti e tutele.

Anche nel comparto domestico l’emergenza Covid ha aggravato la situazione tra i lavoratori stranieri: sono stati circa 13.000 i rapporti di lavoro regolari cessati solo nel periodo marzo- giugno 2020. Considerando che solo circa il 40% di colf e badanti ha un rapporto di lavoro regolare, si può intuire quanto questo dato sia sottostimato. Né gli ultimi provvedimenti legislativi (DL 34/2020) emanati per favorire l’emersione del lavoro nero hanno dato i risultati sperati: sono state circa 207.000 le domande di regolarizzazione presentate contro una previsione di 500-600.000 possibili beneficiari.

Su molti di questi lavoratori, per la maggior parte donne straniere, la perdita del lavoro ha avuto effetti ancor più devastanti rispetto ad altre categorie. Poiché molti lavoratori e soprattutto lavoratrici impiegate nel lavoro domestico e di cura e assistenza alla persona ricevono vitto e alloggio dal datore di lavoro, migliaia di persone licenziate si sono trovate da un giorno all’altro in strada e senza alcun sostentamento.

Solo per dare dei numeri, i nostri servizi nel 2019 avevano in carico 659 persone di nazionalità filippina di cui solo 183 seguite in modo stabile, mentre queste sono diventate 1400 nel corso del 2020. Complessivamente i nostri centri di ascolto hanno registrato un aumento del 35,3% degli stranieri che si sono rivolti per la prima volta ai nostri servizi. A dimostrazione della maggiore vulnerabilità dei migranti, basti dire che  a fronte di una popolazione straniera residente a Roma stimata intorno al 10%, è invece di circa il 52% la percentuale degli stranieri che si sono rivolti per un aiuto ai centri parrocchiali e diocesani della Caritas di Roma .

Il contesto italiano in cui la pandemia evolve fa sì che drammaticamente si rafforzino anche le differenze in ambito di tutela della salute dei migranti. Alcuni fattori sono legati ad una maggiore esposizione al contagio a causa di minori tutele lavorative (esposizione sul luogo di lavoro, maggiori difficoltà nel lavorare da casa o accedere ad altre tutele lavorative, peggiori condizioni abitative, maggiore accesso ai trasporti pubblici) ecc., altri sono invece fattori successivi al contagio, legati alle condizioni di salute e all’esito della malattia, un minore accesso ai test, un ritardo nell’accedere alle cure.

Nel nostro poliambulatorio di Via Marsala, frequentato soprattutto da stranieri, torniamo a riscontrare un incremento delle malattie tipiche del disagio e della povertà, incluse  le malattie mentali. Riscontriamo inoltre una maggiore incidenza di patologie croniche come diabete, ipertensione ed asma, ed il ritardo o la qualità inferiore nella ricezione delle cure per l’assenza di una assicurazione o una copertura sanitaria.

Possiamo quindi riepilogare individuando i fattori che maggiormente hanno determinato un più pesante impatto della pandemia sulle condizioni lavorative, ma più in generale sulle condizioni di vita dei lavoratori stranieri :

  • Gli stranieri lavorano soprattutto nei settori in cui non è possibile svolgere il lavoro da remoto: agricoltura, edilizia, commercio, lavoro domestico, servizi alla persona, trasporti ecc. Inoltre, la forte presenza di stranieri nell’economia sommersa li rende più vulnerabili, sia per l’assenza dei diritti sia per il maggior rischio di contagio
  • I loro contratti di lavoro, spesso precari e di breve durata, rendono maggiormente difficile l’accesso agli ammortizzatori sociali
  • La maggiore precarietà prodotta dalla pandemia li rende più deboli nella legittima richiesta di condizioni lavorative e contrattuali dignitose
  • Le condizioni abitative non sempre permettono a migranti e rifugiati la salubrità degli ambienti ed un adeguato distanziamento, necessari a garantire sicurezza sanitaria
  • L’accesso dei minori stranieri all’istruzione è reso più difficile sia dalle condizioni abitative sia dalla mancanza dei dispositivi informatici necessari per la didattica a distanza
  • La difficoltà ad accedere alle amministrazioni pubbliche ha aumentato i problemi relativi al reperimento della documentazione di soggiorno, particolarmente per quanto riguarda i ricongiungimenti familiari, resi difficili dai problemi di accesso ai consolati italiani nei paesi di origine e al blocco della mobilità internazionale.

Un quadro che ci mostra dunque, come i migranti siano particolarmente esposti e vulnerabili agli effetti della pandemia sia sulla salute che sulle condizioni economiche e sociali, spesso anche per la mancanza di reti di protezione familiare o di comunità.

Tutti i diversi elementi presi in esame ci ricordano come la realtà e le problematiche dell’immigrazione vadano comprese a tutto tondo, e affrontate con politiche lungimiranti. Non è possibile, infatti, realizzare un’efficace accoglienza dei migranti se si cura solo l’aspetto assistenziale, ignorando la dimensione sociale, relazionale, culturale e religiosa, quali dimensioni essenziali della vita di ogni persona. È una concezione riduttiva dell’accoglienza quella che la concepisce come semplice supporto materiale ed economico, come lo è del resto leggere il fenomeno migratorio solo sotto la logica funzionalistica del “ne abbiamo bisogno”, invece di promuovere quella che l’ONU chiama “responsability to protect”, che deve essere un impegno non solo degli Stati ma di ognuno di noi. Questo percorso non può che coinvolgere tutta la comunità dei credenti e tutti gli uomini di buona volontà, perché la pandemia ha reso evidente a tutti che se ne uscirà fuori solo con un grande sforzo comunitario in cui ciascuno di noi- non solo le istituzioni o le autorità politiche e sanitarie- dovrà fare al meglio la propria parte.

Paola Aversa
Area Studi e Comunicazione

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