Casal Bruciato, quelle classifiche della povertà alla base del rancore

Un figlio, la pensione, una malattia, il divorzio, l’anzianità di disoccupazione, la disabilità: gioie e dolori della vita, paure e speranze di ognuno, che un algoritmo molto umano trasforma in punti. Una classifica delle disgrazie che assegna al vincitore un alloggio popolare.
Un meccanismo che dal dopoguerra ha permesso a milioni di italiani di avere una casa, di emanciparsi, di integrarsi nelle grandi città arrivando dalle campagne. Un sistema che ai nostri giorni mostra tutti i suoi limiti per la carenza di investimenti e per la crisi economica.
Nell’epoca degli slogan e della paura serve però qualcuno a cui dare delle colpe, generando così contrasti tra i poveri: i penultimi, senza casa ma con diritto di voto, contro gli ultimi, i senza niente.

Quello che è avvenuto a Casal Bruciato, ennesimo episodio di protesta contro l’assegnazione di un alloggio popolare a una famiglia di etnia rom, rientra pienamente in questa dinamica.
Il tema dei rom nella Capitale è anche una questione annosa che si ripropone in forme diverse definite però sempre con lo stesso nome: “piano nomadi” pur riguardando soprattutto persone nate a Roma. Provvedimenti di emergenza, con i quali prima si sono istituiti dei campi di accoglienza per superare le baraccopoli, attrezzandoli e investendo enormi risorse, per poi decidere di smantellarli. Nel mentre intere generazioni sono cresciute sballottate tra sgomberi, container, camper e scuole diverse; un vero e proprio nomadismo urbano.
Quando poi, come per la famiglia di Imer, a distanza di sette anni dall’ultimo sgombero trascorsi in alloggi di fortuna, si scala la graduatoria cercando di vivere nella “regolarità” in un contesto di povertà ed emarginazione, si trova qualcuno che dice di avere più diritto a quella casa.
Questi – che magari vive in un’abitazione occupata o in un alloggio condiviso con figli e nipoti disoccupati – scende in strada spalleggiato da gruppi estremisti sempre più esperti ad inserirsi in queste fratture del tessuto sociale.

Una situazione complessa che, proprio per questo, nell’immediato non ha soluzioni. Ci sono però dei principi che debbono ispirare l’agire di ognuno.
Anzitutto la consapevolezza che la tutela dei diritti inizia dal salvaguardare i deboli, esclude la violenza e il rancore e si fonda sulla solidarietà e la legalità. Per questo occorre rimettere al centro la persona: i rom, i rifugiati, i senza dimora sono categorie sociali da superare.
Un impegno che deve avere le Istituzioni in prima linea ma non può fare a meno della partecipazione attiva e determinata della società in tutte le sue espressioni. Anche per la comunità cristiana è una sollecitazione a essere presente e “buttarsi nella mischia” con scelte chiare e visibili.
Presenza che non sia di contrapposizione ma di riconciliazione, che sappia unire le tante periferie geografiche ed esistenziali: un percorso di conversione per una “rivoluzione della tenerezza” per rimarginare il rancore attraverso l’incontro con l’altro. Pensare di risolvere i problemi escludendo oggi i rom e gli immigrati, domani chissà chi, è un’illusione; come dice papa Francesco, così facendo ci collochiamo tra le fila dei “cittadini di seconda categoria”. E così abbiamo perso tutti la nostra umanità.

(Don Benoni Ambarus, Famiglia Cristiana n. 20/2019)

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