Lettera aperta alle comunità cristiane

Carissimi,
vorrei far mie, e vorrei che riecheggiassero con forza nella nostra Chiesa di Roma, le parole che il Cardinal Vicario ha pronunciato lo scorso 9 febbraio nella Basilica di Santa Maria in Trastevere durante la Preghiera in memoria dei piccoli Sebastian, Patrizia, Fernando e Raul, tragicamente morti nel rogo avvenuto nell’accampamento di Via Appia Nuova.
Parole che ci scuotono e ci interpellano come uomini e come credenti, parole da cui dobbiamo lasciarci “turbare” proprio come questa morte ha turbato e scosso la coscienza di molti: “la morte di Sebastian, Patrizia, Fernando, Raul è come un macigno che ci pesa sul cuore e ci invita ad un grave esame di coscienza, ciascuno per la sua parte di responsabilità”. Se è vero, come diceva il Cardinale, che viviamo in una società complessa, segnata da visioni culturali e modi di pensare molto diversi, spesso contrapposti, dove l’anonimato, l’indifferenza, la diffidenza, sembrano farla da padroni non possiamo non riconoscere che la globalizzazione e i nuovi scenari migratori che da anni si stanno profilando ci impongono “una conversione personale e comunitaria del cuore, che ci faccia guardare la realtà con gli occhi della verità: non dimentichiamo che abbiamo davanti uomini e donne come noi, bambini come i nostri figli, fratelli nostri, che valgono non per quello che hanno o possiedono ma per quello che sono, persone umane”.

Quel discernere “i segni dei tempi” a cui, da sempre, la parola del Signore ci invita, e il grande Magistero del Concilio Vaticano II ha voluto richiamarci per essere Chiesa, ci dice che “ancor prima di soluzioni politiche e normative è necessaria una visione dell’uomo e della società che diventi cultura diffusa, ispirata dal rispetto per ogni uomo, perché è uomo, una cultura aperta all’accoglienza e alla solidarietà…” E con grande forza il Cardinale ci diceva: “se poi siamo cristiani, non possiamo non amare e non metterci dalla parte dei poveri, degli ultimi, degli emarginati: essi sono una presenza reale di Gesù Cristo”.
Queste parole non possono lasciarci indifferenti! I poveri, gli ultimi, gli emarginati: una presenza reale di Gesù Cristo da onorare alla stessa stregua con cui onoriamo e custodiamo il Corpo di Cristo nell’Eucaristia. Già i Padri della Chiesa ci esortavano: “Vuoi onorare il corpo di Cristo? Ebbene, non tollerare che egli sia nudo; dopo averlo onorato qui in Chiesa con stoffe di seta, non permettere che fuori egli muoia per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: ‘Questo è il mio corpo’, confermando con la sua parola l’atto che faceva, ha anche detto: ‘Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare’… Quale vantaggio può avere Cristo se il suo altare è coperto d’oro, mentre egli stesso muore di fame nel povero? Comincia a saziare lui che ha fame e in seguito, se ti resta ancora del denaro, orna anche il suo altare…” (Giovanni Crisostomo, Omelie sul Vangelo di Matteo). La carità vera allora non può non essere accoglienza del fratello bisognoso: “accogliere il povero, l’immigrato vuol dire considerarlo uno di casa nostra, uno come noi, donargli il nostro tempo, fargli spazio nelle nostre amicizie, provvedere a lui con leggi giuste. Significa, inoltre, dargli una mano per superare l’emarginazione in cui spesso si trova a vivere, testimoniandogli che Dio è amore e Padre di tutti…”.
La comunità cristiana di Roma non vuole e non può restare indifferente dinanzi le necessità dei poveri, perché la parola del vangelo e del magistero ci ricorda che la carità è inseparabile dalla giustizia e, in tanti casi, “dobbiamo riparare… alla giustizia negata”. Purtroppo ancora una volta è la tragicità di un evento a costringerci a non chiudere gli occhi, a non distogliere lo sguardo troppo presto, facendoci rendere conto – con disarmante verità – che questi bambini non sono diversi dai nostri bambini. Ad ogni latitudine della terra, grazie a loro, non avvertiamo né distanze né diversità, perché ogni bambino ha il dono di rendere tutto il mondo un mondo di padri, di madri e di figli. L’unica sfortuna di questi bambini è “stata quella di essere nati poveri e immigrati”. Guardando alla nostra città e ascoltando il grido dei poveri che da essa si leva, mi viene da chiedermi: è così necessario che irrompa nelle nostre pacate giornate il ciclone del dolore per accorgerci di loro? Con questo interrogativo affido alla mia e alla vostra meditazione l’intera omelia pronunciata dal Cardinal Vicario durante la veglia di preghiera, affinché sia stimolo per tutti noi ad una vera conversione del cuore.

Roma, 11 Febbraio 2011 – Mons. Enrico Feroci – Direttore Caritas di Roma

Veglia di preghiera in memoria di Sebastian, Patrizia, Fernando e Raul
Omelia del Cardinale Vicario Agostino Vallini
Basilica di S. Maria in Trastevere, 9 febbraio 2011

Carissimi fratelli e sorelle!
La circostanza che ci vede riuniti è tra le più tragiche e dolorose della vita: la morte atroce e umanamente inaccettabile di quattro bambini innocenti, la cui unica sfortuna è stata quella di essere nati poveri e immigrati. Se dinanzi al mistero della morte si rimane sgomenti, perché – qualunque sia la forma con cui ci ferisce – la morte rende enigmatico e penoso il nostro destino di creature che anelano alla vita e alla gioia, oggi il nostro sgomento sembra quasi superare la capacità di sopportazione, guardando a questi bambini ghermiti improvvisamente da una sorte crudele.

Il mistero della morte di Sebastian, Patrizia, Fernando e Raul turba il nostro cuore e viene naturale domandarci: chi può consolare il dolore straziante dei genitori, dei parenti e di tutti noi? Quale luce può diradare il buio della morte?  A queste domande non ci sono risposte umanamente persuasive. Solo la fede può squarciare la notte del dolore e lenire l’angoscia della disperazione e aprire il cuore alla speranza che non ha fine. La Parola di Dio che abbiamo appena ascoltato ci invita a guardare oltre il buio, a fissare lo sguardo su Cristo Gesù, il Figlio di Dio che si è fatto uomo per amore nostro, ha dato la vita per noi, ha vinto la morte e ha donato lo Spirito Santo perché ogni uomo, con la sua forza, possa vincere la morte.
Parlando di Lui, abbiamo sentito dal profeta Isaia parole di consolazione e di speranza: Cristo è venuto “a portare il lieto annunzio a poveri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati… , a consolare gli afflitti”. Questa fede, cari fratelli e sorelle, è la nostra forza che ci permette di riprendere il cammino faticoso della vita e andare avanti. Nella fede possiamo trovare luce e conforto, ripetendo con il salmo 121: alzo gli occhi verso i monti, da dove mi verrà l’aiuto. Il mio aiuto viene dal Signore che ha fatto cielo e terra. Il Signore è il mio custode, il Signore è come ombra che mi copre, il Signore mi proteggerà da ogni male, ora e per sempre. Il Vangelo ci ha parlato di Gesù che è attorniato dai bambini e dice che ad essi “appartiene il Regno dei cieli”.
I bambini sono nel cuore di Dio. Essi, che sono venuti al mondo per un atto creatore di Dio, con la loro innocenza e bontà sono i primi ad appartenere al Signore e a godere eternamente con lui. Questa parola di Gesù non può essere smentita e, su di essa, noi abbiamo la certezza che questi nostri quattro piccoli fratelli sono nella beatitudine del Paradiso. Ma questo tragico evento pone anche a ciascuno di noi una domanda: potevamo fare qualcosa per scongiurare questa morte ingiusta?
La morte di Sebastian, Patrizia, Fernando e Raul è come un macigno che ci pesa sul cuore e ci invita ad un grave esame di coscienza, ciascuno per la sua parte di responsabilità. Viviamo in una società complessa, segnata da visioni culturali e modi di pensare molto diversi, spesso contrapposti, e nella grande città crescono l’anonimato, l’indifferenza, la non curanza e talvolta il disprezzo verso chi non la pensa come noi o viene a disturbare la nostra vita tranquilla e i nostri interessi. Anche l’egoismo fa la sua parte, rendendoci lontani, spesso insensibili verso chi sta male e manca di tutto. Questi nostri anni, segnati da una globalizzazione problematica, tra gli altri fenomeni registrano il crescente movimento di persone e di famiglie che emigrano dalle loro terre per fuggire dalle guerre, dalle violenze e dalla fame, alla ricerca disperata di pace e di dignità. Certo, la presenza degli immigrati pone nuovi problemi che non possiamo eludere né semplificare: sarebbe un errore umano gravissimo affrontare con superficialità ciò che è invece complesso e richiede per essere risolto efficacemente tempo, pazienza e lungimiranza. Dinanzi a questo fenomeno è necessaria anzitutto una conversione personale e comunitaria del cuore, che ci faccia guardare la realtà con gli occhi della verità: non dimentichiamo che abbiamo davanti uomini e donne come noi, bambini come i nostri figli, fratelli nostri, che valgono non per quello che hanno o possiedono ma per quello che sono, persone umane. Ancor prima di soluzioni politiche e normative è necessaria una visione dell’uomo e della società che diventi cultura diffusa, ispirata dal rispetto per ogni uomo, perché è uomo, una cultura aperta all’accoglienza e alla solidarietà, nella legalità, per una integrazione sociale degna di una società progredita. Questo tragico evento sia dunque l’occasione per un maggiore impegno a far crescere e diffondere questa cultura. Cari fratelli, se poi siamo cristiani, non possiamo non amare e non metterci dalla parte dei poveri, degli ultimi, degli emarginati: essi sono una “presenza reale” di Gesù Cristo.
La carità vera allora non può non essere accoglienza del fratello bisognoso. Accogliere il povero, l’immigrato vuol dire considerarlo uno di casa nostra, uno come noi, donargli il nostro tempo, fargli spazio nelle nostre amicizie, provvedere a lui anche con leggi giuste. Significa, inoltre, dargli cordialmente una mano per superare l’emarginazione in cui spesso si trova a vivere, testimoniandogli che Dio è amore e Padre di tutti e ci comanda di rispettare e promuovere l’inviolabile dignità di ogni persona umana. Dinanzi ai tanti poveri, vecchi e nuovi, della nostra città dobbiamo chieder perdono a Dio e a loro di quanto non abbiamo fatto e convertirci. Lo facciamo questa sera meditando sulla morte di questi quattro bambini: nel loro sacrificio impegniamoci per una vita nuova. Ma la carità è inseparabile dalla giustizia. Domandiamoci se non dobbiamo riparare in tanti casi alla giustizia negata, promuovendo una concezione della società in cui gli immigrati non siano considerati solo una fonte di problemi, ma persone meno provvedute e come noi titolari di diritti fondamentali. Né va dimenticato che essi sono di grande aiuto alla vita della comunità civile, nella quale svolgono molto spesso lavori umili e faticosi e offrono un prezioso contributo alla stessa economia del nostro paese. In questa logica non parleremo più di assistenzialismo, ma di impegno per la giustizia e la solidarietà. Oggi il fenomeno immigrazione, a Roma, come in tante altre città, è una grave emergenza, che richiede misure urgenti per essere affrontata e superata. Alle istituzioni civili, di cui apprezziamo l’impegno per far fronte all’emergenza, chiediamo di andare oltre l’emergenza, di operare con sapienza e pazienza per promuovere forme di integrazione sociale che permettano a chi si trasferisce nel nostro paese e vive legalmente condizioni di vita alla pari di tutti gli altri cittadini, a cominciare dal diritto alla casa, alla scuola dei figli, al lavoro. E’ una questione di giustizia che un paese democratico non può eludere. Queste tragedie ci fanno capire che molta strada resta da fare. Per costruire il bene comune e la pace sociale è necessario cooperare, attraverso politiche adeguate, a creare i presupposti per l’emancipazione e la liberazione dell’essere umano da ogni forma di emarginazione e dai meccanismi dell’esclusione sociale, perché venga dato per giustizia ciò che oggi forse diamo per carità. In questo senso cresca nel nostro paese la cultura del diritto, dell’uguaglianza e della giustizia sociale, lavorando per superare le cause strutturali di ogni emarginazione sociale.
Cari fratelli e sorelle, Roma, patria del diritto, ha anche una grande storia di umanità e di carità, costruita da tanti Santi, che hanno lasciato una traccia indelebile nella nostra città. Questa sera chiediamo a loro di intercedere per noi, perché ci ottengano la grazia di un cuore nuovo e ardente, affinché la Chiesa di Roma, con la parola e le opere, sappia testimoniare la sua fede nel Dio Amore. Affidiamo alle braccia misericordiose di Dio Sebastian, Patrizia, Fernando e Raul, e chiediamo a Lui, il Dio di ogni consolazione, di lenire il dolore e le lacrime dei loro genitori.   Il Signore ci doni occhi capaci di vedere queste sofferenze e di non chiudere mai il cuore al grido dei poveri.